“Primavera a Trieste.Ricordi del ’45″di Pier Antonio Quarantotti Gambini

“ Dove siete brigate partigiane dell’Alta Italia, di cui sentiamo parlare da mesi? Possibile che nessun comandante abbia l’occhio e il cuore pronto, che nessuno pensi a passare il Piave, il Tagliamento e l’Isonzo? …E che fa la “ Osoppo”, che è quassù, a poche decine di chilometri da noi?…Possibile che soltanto gli jugoslavi pensino al Carnaro, all’Istria, a Gorizia? ”
Sono le angosciate invocazioni a un’Italia assente e le amare riflessioni con cui si apre, alla data del 29 aprile 1945, il diario che Pier Antonio Quarantotti Gambini (Pisino 1910- Venezia 1965) tenne fino al 27 maggio dello stesso anno e che, rielaborato, pubblicò nel 1951. E’ l’angosciato, concitato racconto dei “quaranta giorni di Trieste”, i giorni del terrore, durante i quali le truppe di Tito, dopo la resa dei Tedeschi, tennero in pugno la città sotto lo sguardo distratto e la sostanziale inazione degli angloamericani. Siamo così accompagnati e fatti partecipi delle convulse e tragiche vicende di un’occupazione che si protrasse fino al 12 giugno, quando i titini, a seguito dell’accordo di Belgrado, si ritirarono poco fuori la città, dietro la cosiddetta “ linea Morgan”, in attesa che la questione fosse risolta dalla Conferenza di pace.

Un racconto, dicevamo, non un semplice resoconto: si accavallano infatti, e s’insinuano tra gli avvenimenti, riflessioni, ricordi, descrizioni del perduto passato, considerazioni a posteriori; frequente poi l’utilizzo del discorso diretto, a rendere più evidente sia la contrapposizione tra gli opposti schieramenti sia il contrasto delle idee, delle ipotesi, delle scelte. E’ questo l’andamento “drammatico”, quasi da rappresentazione scenica, che giorno dopo giorno scandisce l’alternarsi delle speranze e delle delusioni di quei giorni.
E il primo, fondamentale dilemma, quando ancora, il giorno 29, i giochi non sono fatti, è questo: “ A chi spetta occupare militarmente la Venezia Giulia, cioè di “ liberarla”? Ad Alexander o a Tito? ”
“Siamo noi che dobbiamo venire – asserivano i partigiani di Tito nelle campagne e nelle cittadine della provincia, dovunque s’infiltrassero fra la nostra popolazione; e la notizia era ripetuta a Trieste, di casa in casa, in tono ormai di minaccia, dalle domestiche e dalle portinaie slave: “ Verremo noi , sino all’Isonzo. Voi avete perduto la guerra. Questa è ormai Jugoslavia.”
“La nostra speranza non cedeva: Secondo l’armistizio concluso dagli angloamericani con Badoglio, l’Italia si arrendeva ad essi, soltanto ad essi, entro tutti i suoi confini: era un nostro dovere, allora, lasciarci occupare secondo i patti; è un nostro diritto, oggi, reclamare di essere occupati dagli angloamericani sino alle Alpi Giulie, secondo i patti. “
Il 30 aprile Trieste insorge contro i Tedeschi, l’1 maggio i partigiani di Tito entrano in città, il 2 arrivano i neozelandesi, e solo ad essi i Tedeschi, asserragliati sul colle di S. Giusto, si arrendono.
“ Noi arrivammo primi! ” è lo slogan dei titini. E su questo primato, con cui s’è conclusa la “ corsa per Trieste” da parte delle due armate, si attua, complice l’arrendevolezza del comandante neozelandese Freyberg, il controllo sempre più invasivo, fino a diventare quasi totale, degli jugoslavi sulla città.
2 Maggio: “ Passa in fila indiana una turba indescrivibile. Uomini laceri, in babbucce o a piedi nudi, ognuno vestito in modo diverso. C’era anche qualche divisa, i calzoni o la giacca di qualche divisa, ora italiana, ora tedesca…ma i più reggono le armi su vecchi abiti da contadino…Contadini, boscaioli, pastori. Posso in questo momento, mentre li guardo, anche comprenderli…Sfila la misera turba e non si apre una finestra, non sventola una bandiera, non corre un triestino a gridare evviva sulla via…Li si ignora.”
3 maggio: “ Nella tarda serata di ieri gli uomini di Tito, incoraggiati dall’inerzia degli Alleati, espellevano brutalmente il Cln dalla Prefettura, che restava così nelle loro mani. E tutti gli edifici pubblici sono ormai occupati e vigilati, con le mitragliatrici a ogni entrata, dagli Jugoslavi e altri edifici continuano a cadere via via. Da ogni parte vengono segnalati arresti di italiani, più che di fascisti; e le nostre bandiere vengono strappate dalle finestre.”
Gli arresti: se ne conteranno sui 10.000 in tutta la Venezia Giulia, di civili e militari, e di questi, tra campi di concentramento e foibe, Basovizza la più nota, non tutti torneranno. Le vittime di questa seconda ondata di violenza(la prima era stata quella in Istria dopo l’8 settembre) ad un calcolo necessariamente approssimativo, e con tutte le cautele degli storici, sembrano ammontare “ ad alcune migliaia, tra le quattro e le cinque ”(1). Ma chi erano quelli suscettibili di arresto? Un elenco ce lo forniscono le fonti jugoslave:
“ Repubblichini, militi fascisti, collaboratori dell’occupatore, della questura, squadristi, delatori, fascisti, SS, appartenenti al <Landschutz>(la Guardia Civica), occultatori di materiale bellico e di armi, agenti della questura, della polizia, dell’Ovra, membri della X Mas, della banda Collotti, rastrellatori, partecipanti alle manifestazioni filo-italiane del 5 maggio a Trieste e sacerdoti sospettati di collaborazione con l’occupatore”(2)

Il Territorio Libero di Trieste
Le responsabilità dei generali felloni, dei comunisti caduti nella trappola dell’internazionalismo socialista e di quella “ fratellanza” italo-slava nel segno dell’ideale comunista, che nasconde il preciso disegno nazionalista e annessionistico di Tito, l’acquiescenza distratta, o voluta, del comando alleato, l’analisi di Quarantotti Gambini non concede sconti. E su tutto aleggia un clima d’attesa, di sospensione, legata all’esito delle trattative diplomatiche, che si sa condizionate dalla situazione di fatto che avvantaggia la parte slava; in mezzo la vita che scorre, “ questa primavera atroce d’uno splendido verde”, che sollecita i ricordi:
“ Schivata la piazza, deserte le rive; e pure è una domenica, ed è maggio, e c’è un sole radioso: una di quelle giornate in cui tutta Trieste era solita riversarsi giù per il Corso, sulla piazza e sui moli, con frotte di nuove ragazze – ogni anno – in vestitini lievi.”
e “altri pensieri”:
“ Ecco l’Istria laggiù, lieve sfumata sul mare. Lì dentro, in mezzo a quei promontori verdi, è Capodistria; lì fuori su quella punta è Pirano, piccola chiara appena visibile sopra la lieve foschia estiva, col campanile che luccica nel sole. E più giù, invisibili, ma vive in me, Parenzo con la sua basilica; e Rovigno cui mi legano tanti secoli di vita patrizia e marinara della mia famiglia paterna; ed Albona tutta di sasso, spalto d’Italia sul Quarnero; e Pisino nell’interno, la mia cittadina natale.”
E’ il 27 maggio, questa è l’ultima immagine che il nostro protagonista porta con sé mentre è in fuga da una Trieste in cui è ricercato come direttore della Biblioteca Civica che s’è rifiutato di aderire al sindacato filoslavo. Attende una jeep inglese che gli consentirà di varcare il confine dell’Isonzo che lo separa da quella che è ancora Italia.
“ Meno di mezz’ora, e siamo a Udine. Sorridendo l’autista ci apre la tenda. Socchiudiamo gli occhi alla piena luce; balziamo a terra. Passanti, monelli, ragazze che riempiono cartocci parlando e scherzando dietro banchi ricolmi di ciliege lucide rosse e nere; soldati alleati che si accalcano ai banchi e vanno via mangiando e sputando i noccioli; ragazzaglia e altri soldati a lavar ciliege a una fontana; e tutti sembrano sorridere, tutti sono leggeri nel passo e in volto. Li guardiamo, li osserviamo, quasi senza parole; e ci scrutiamo l’un l’altro nei visi ancor cupi; e poi torniamo a guardare il sole, l’aria, e tutta la vita che ci attornia: i passanti, queste ragazze, i monelli. Che cos’è questa lietezza, questa felicità, di cui non si accorgono neanche? Fine della guerra, sicurezza, libertà? Qui risplende – ci sembra – un altro sole. “
Post scriptum: Il trattato di pace di Parigi(1947) stabilì la costituzione del Territorio libero di Trieste(TLT), a sua volta diviso in zona A(con Trieste) sotto l’amministrazione militare alleata, e zona B(comprendente la fascia costiera istriana da Capodistria a Cittanova) sotto l’amministrazione militare jugoslava. E’ questa la realtà politica coeva alla pubblicazione del libro. La mancata realizzazione sul piano giuridico del TLT creò una situazione di stallo risolta col Memorandum di Londra(1954) che assegnava all’Italia la zona A e alla Jugoslavia la zona B. Tale accordo fu infine ratificato dal Trattato di Osimo(1975).

Il confine tra Italia e Jugoslavia stabilito dal Memorandum di Londra del 1954
Note:
(1) Raoul Pupo, Adriatico amarissimo, Laterza-Corriere della Sera, 2023, p.193.
(2) ibidem, p. 181.