In Via D’Amelio la verità senza volto, solo l’apice della retorica

Il giorno della strage di Via D’Amelio è divenuto uno dei momenti di apice della retorica nazionale. Si raggiunge l’acme dell’ipocrisia assoluta e del servilismo più becero in cui si ricordano i morti di una strage non solo mafiosa, in cui si issano le bandiere della legalità solo per un giorno, in cui le parole roboanti si sprecano a volontà per non dire nulla. Ancora oggi abbiamo tanti “convitati di pietra” che non hanno impedito la morte di questo valoroso giudice e degli uomini della scorta che rilasciano interviste a iosa e si resta sempre sconcertati nell’apprendere che costoro non avvertono nessuna responsabilità neanche morale per la drammatica fine di Paolo Borsellino. Oggi l’amico Mario Ravidà ribadisce ancora una volta il racconto della sua esperienza di poliziotto vissuta insieme ad un collega quando furono inviati a Palermo dopo la strage per essere di ausilio all’indagine e con il grande intuito professionale di poliziotti intelligenti, integri e onesti individuarono il luogo dove con molta probabilità venne azionato il telecomando della strage. Nessuno seguì le indicazioni della relazione di servizio anzi i due poliziotti in tutta fretta furono rispediti a Catania. Allora basta solo questo fatto che si aggiunge a tanti altri gravissimi fatti avvenuti per capire che la verità su Via D’Amelio non conviene farla uscire al di là di migliaia e migliaia di pagine processuali, al di là di uno due tre quattro processi su depistaggi e colpevoli. Adesso è arrivata quasi l’ora di dare fiato alle trombe della retorica.