Tomasi di Lampedusa nei ricordi di Lucio Piccolo.Il principe e il barone

Avvenne agli inizi del 1954. Il sindaco di San Pellegrino, in cerca di qualche avvenimento mondano per il rilancio della stazione termale della sua città, si rivolse al critico Ravegnani. Questi propose di mettere faccia a faccia poeti e scrittori ormai affermati e giovani promesse. La proposta fu accolta e fu stampato un cartoncino-programma che diceva: “San Pellegrino Terme. 16-19 luglio 1954. Romanzo e poesia di ieri e di oggi: incontri di due generazioni”. Il 19, domenica, tra gli altri, Eugenio Montale avrebbe presentato “un giovane”, sconosciuto poeta: tale Lucio Piccolo.
L’incontro si svolse regolarmente. La sua maggiore gloria – scrive Guido Lopez, uno dei presenti alla manifestazione –, non venne da parte degli illustri invitati e neppure dai giovani poeti da costoro presentati, ma da quel Lucio Piccolo, affiancato nel programma ad Eugenio Montale, che si presentò come barone di Calanovella, di anni 51, da Capo d’Orlando (Messina). “Lo vedemmo affacciarsi, il primo giorno del Convegno, tutto vestito di nero, fuor da un’imponente automobile d’anteguerra affittata sul luogo, in compagnia di un altro personaggio corpulento, nerovestito anche lui e – se non mi tradisce la memoria – con la bombetta lucida in testa e bastone pomellato in mano. Facile, a capirlo, chi fosse: oggi. Quel giorno lo ascoltammo esterrefatti presentarsi come Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cugino e accompagnatore di Piccolo (“Mio cugino è parecchio distratto” – così giustificava la sua presenza in quel luogo – “ha continuamente bisogno di qualcuno che gli ricordi cosa deve fare”). Quanto al barone di Calanovella dal curioso ciuffo bipartito sul cocuzzolo, a sventola le orecchie, mobili e irsute le sopracciglia sugli occhi acuti e un po’ sporgenti, si avvicinò al gruppo de letterati illustri un po’ titubante, accennò un inchino: era lui, disse, il “giovane” poeta previsto dal programma domenica pomeriggio”.
Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa e duca Palma, e Lucio Piccolo,barone di Calanovella, erano cugini primi (le loro madri, Beatrice, detta “Bice”, e Teresa, appartenenti alla nobile casata Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò, erano sorelle). Giuseppe, nato nel 1896, aveva cinque anni in più di Lucio, che era nato nel 1901, anche se aveva il vezzo di togliersi due anni. Benché i Lampedusa considerassero i Piccolo come parenti contadini – in realtà. La loro nobiltà si faceva risalire, in linea femminile, a Bianca Lancia –, i due cugini furono molto amici fin dall’infanzia e, negli ann Venti, costituirono una specie di sodalizio intellettuale.
Lampedusa aveva fatto studi sistematici: dopo la prima guerra mondiale, alla quale aveva partecipato come tenente di artiglieria, aveva ripreso gli studi di Giurisprudenza a Torino, ma non pare si sia laureato. Nel contempo, si era appassionato alle letture storiche e alla narrativa europea, soprattutto francese e tedesca.
Lucio Piccolo, invece, anche lui di intelligenza vivace (da bambino, sbalordiva gli insegnanti con la precoce conoscenza del greco), dopo la maturità classica, decise di non proseguire gli studi. Tra i due vi fu un’affettuosa rivalità: cercavano di “pizzicarsi” a vicenda. Piccolo riconosceva la superiore cultura del cugino, ma spesso si prendeva le sue rivincite: scriveva poesie in arabo, una delle varie lingue che conosceva e parlava, facendo imbestialire il rivale.
Sull’argomento, abbiano una testimonianza unilaterale. In un’intervista televisiva del 1967, Piccolo dichiara: “Di Lampedusa cosa posso dire? Per anni ed anni veniva qui ospite in quella stanza che le ho fatto vedere. Era un uomo molto, molto profondo… molto chiuso in sé, soprattutto, e anche timido. I nostri rapporti erano di parenti vicini, era mio cugino primo. Il cugino col quale eravamo più intimi data l’affinità delle aspirazioni e dei gusti letterari […].
Comincerò [col raccontare] qualcosa che potrà essere interessante […]: c’era fra di noi una sorta di gara, a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d’Irlanda che fui a leggere prima di Lampedusa… Parlo di cose di molti, molti decenni addietro, quando Yeats non aveva avuto il premio Nobel… Poi Palermo era un po’ chiusa alle novità: quindi doveva esserci una particolare intenzione. Ricordo che ne parlai tanto con Lampedusa e Lampedusa finalmente lo lesse, accordò che era un grande poeta e scrisse subito un saggio… E così ci siamo accaparrati, diciamo, tutta la letteratura contemporanea europea, tedesca e francese…Ricordo anzi che fu proprio Lampedusa a introdurre a Palermo, nella Palermo colta, Rilke. Lampedusa tornò dalla prigionia, dallo sfasciarsi dell’impero austro-ungarico dove era prigioniero e fuggì, e il suo apporto più importante alla guerra fu la poesia di Rilke, che da noi era sconosciuta […]. Ricordo le meditazioni infinite su Rilke, e poi via via passarono Joyce, Proust… Di Proust mi ricordo che una volta [Lampedusa] mi disse: “Sai, c’è uno scrittore francese il quale per fare due passi da qui a lì impiega dieci pagine”. La prima immagine che io ho avuto di Proust è stata questa”. E subito dopo, il barone-poeta chiarirà la natura della loro rivalità: “… Debbo dire che molte cose che lui aveva scritto non erano a mia conoscenza. Io l’ho subito dopo, quando Lampedusa già non c’era più […]. Si guardava da me, come io pure da lui, perché eravamo pronti a distruggerci senza pietà con il fine nobilissimo di arrivare ad una agognata irraggiungibile essenzialità”.
Nel 1930, i due cugini compiono insieme alcuni viaggi in Europa. Ascoltiamo, ancora che cosa racconta Piccolo: “Il viaggio a Londra di me con Lampedusa avvenne – salvo errore – nel ‘30-’31, anche ‘29, non ricordo… comunque posso dire che non fu privo di un certo colore perché Lampedusa era un umorista; specialmente io ero la mira dei suoi benevoli e affettuosi sarcasmi. Si era fitto in capo di creare di me la macchietta del giovane… così, di tendenze letterarie che si recava per la pima volta a Parigi e a Londra. Voleva creare senz’altro la macchietta del giovane di provincia, ‘monsieur Vudressar’… Debbo dire che non ci riuscì naturalmente, perché ‘monsieur’, visto che si comportava così, cercava in ogni modo di sfuggire ai suoi frizzi…”.
Fra tutte le grandi famiglie cui i Piccolo si sarebbero imparentati nel corso dei secoli, quella degli oriundi piemontesi Lancia arride particolarmente alla fantasia di Lucio Piccolo: per “quel vento di soave” che, come dice Dante, s’incarnò in Bianca Lancia, da cui, appunto, nacque Manfredi. Tre fratelli furono gli ultimi Lancia. Uno era vescovo. “Purtroppo”. Dice Piccolo, “l’unico ad aver figli era il vescovo”. Lo dice senza malizia, senza dare al fatto altro peso che quello di una specie di incidente giuridico in cui i Lancia erano andati infine ad incagliarsi.
I Lancia, le cui origini attraverso Bianca si fondono alle origini della poesia in Sicilia, e i Filangeri che cinque secoli dopo, con l’autore della Scienza della legislazione, si legarono al vigore della ragione, sono i miti genealogici di Lucio Piccolo. La linea femminile è quella che collega Piccolo a Palermo per parte di madre. E la poesia d Piccolo è palermitana, nel senso stesso per cui lo è Il Gattopardo.
È curioso che nessuno abbia notato come nel piccoliano Canti barocchi vi fosse già Il Gattopardo: quel “mondo singolare siciliano, anzi più precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da un’espressione d’arte”, come scriveva il barone-poeta nella lettera a Montale, inviandogli i Canti barocchi (ma sembra che quella lettera l’abbia scritto il cugino Lampedusa).
Quando accenna a Il Gattopardo, si ha l’impressione che Piccolo consideri “volgare” il successo conseguito con un romanzo. Ed è inevitabile che egli si soffermi sul “gran rifiuto” di Vittorini: “Quel che non comprendo e quindi non giustifico è come, a nome di una vastissima casa editrice, gli sia stata chiusa la porta in faccia. Dovrebbe saltare agli occhi di tutti come questo fatto abbia avuto un carattere settario, intellettualistico ed infine snobistico, d’uno snobismo se si vuole capovolto ma snobismo”.
Anche se lo pensasse, Piccolo non direbbe mai che il rifiuto di Vittorini sia venuto dalle sue viscere siciliane: dall’irritazione del siciliano che conosce le responsabilità storiche della classe aristocratica dell’Isola, ed ecco che si trova in un libro che offre una specie di affascinante alibi esistenziale di quella classe. A quel tempo, scrive Francesco Orlando, “io finii col soccombere all’illusione, in pieno, fantasticando dietro quei due patrizi unici a Palermo tutta una classe di loro simili colti come loro, per aver divorato a sette anni Molière al posto di Topolino e La tempesta al posto delle favole per bambini”.