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Terremoto del 1980 in Irpinia : i ricordi di un giovane soldato 

Il sisma che ha colpito nei giorni scorsi alcune zone di confine fra la Turchia e la Siria non può che riportarmi con la mente a quel lontano 23 novembre del 1980, al terremoto dell’Irpinia, che causò devastazione in una vasta area della Campania, della Basilicata, e in parte della Puglia, provocando quasi tremila morti.

All’epoca avevo 21 anni ed ero in servizio militare di leva, artigliere Caporal Maggiore dell’Esercito, di stanza alla Caserma Rossani di Bari, 3a Batteria Comando e Servizi, con l’incarico di “Capo pezzo”, ossia, comandavo una squadra di “serventi” addetti al pezzo di artiglieria, un obice in grado di sparare granate a lunga gittata, una responsabilità che richiedeva un continuo addestramento all’uso dell’armamento, sia in caserma, con simulazioni, che nei poligoni militari della regione.

La sera del 23 novembre 1980, a notte inoltrata, fummo mobilitati per prestare soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto: da quel giorno sono trascorsi oltre quarant’anni, i ricordi col tempo si affievoliscono, ma rammento bene le ore precedenti la partenza, quando scattò l’allarme e cominciarono ad arrivare le prime, confuse e frammentarie notizie.

Tra i miei compagni di naja c’erano molti campani provenienti proprio dalle zone colpite; vedevo i loro volti preoccupati e smarriti mentre arrivavano via radio i comunicati delle agenzie di stampa; qualcuno diceva: «Partiamo subito!»

Appena giunsero nella notte le disposizioni operative del Comando Militare, gli ordini dei superiori furono perentori: «Adunata! Preparate gli zaini, pronti alla partenza».

Un’immagine del terremoto in Irpinia

E si partì, a bordo di camion militari incolonnati uno dietro l’altro; un lungo viaggio tra i monti dell’Appennino meridionale, immersi nella nebbia, increduli di quanto stesse accadendo e il cuore in gola non sapendo cosa ci attendesse.

Man mano che ci avvicinavamo alle zone terremotate incontravamo lungo il tragitto gruppi di persone avvolte nelle coperte, sedute attorno a fuochi per riscaldarsi, che davano indicazioni ai nostri autisti: «Prendete questa strada perché l’altra è interrotta; no, meglio quell’altra, è più breve…».

Alle prime luci dell’alba giungemmo sui luoghi della catastrofe; muniti di badili e picconi, fummo subito trasportati nei pressi di un paesino in provincia di Avellino, letteralmente raso al suolo (Torella dei Lombardi o Conza della Campania, non ricordo esattamente).

Ma c’era un problema: in paese non si poteva entrare dalle vie di accesso principali perché erano sepolte dal crollo delle case, e quindi per raggiungere il centro dell’abitato fu necessario attraversare le campagne circostanti.

In questo piccolo borgo cancellato dalla scossa tellurica sostammo per alcuni giorni; personalmente ho estratto, assieme ad altri commilitoni, diversi corpi dalle macerie, in particolare, il cadavere di un anziano con una sigaretta ancora tra le dita, e altri ancora che per senso di pietà e rispetto preferisco non raccontare.

Nelle operazioni di scavo attorno ad un edificio, seguivamo le indicazioni dei superstiti, vicini di casa, parenti, amici, che fossero a conoscenza di quante persone vi abitassero e in quale punto si trovasse l’ingresso dell’abitazione, dove presumibilmente avremmo trovato i corpi delle vittime o eventuali sopravvissuti, in fuga nel disperato tentativo di mettersi in salvo.

Di quei giorni tremendi ricordo la pioggia incessante, la tenda dove dormivamo allagata, la febbre e la dissenteria che mi colpirono nei giorni seguenti, probabilmente per le difficili condizioni igienico-sanitarie. Ma, come si diceva allora, non “marcai visita”, mi sarei sentito un disertore di fronte ai lutti e alle sofferenze che si dipanavano sotto i miei occhi, uno scenario di guerra.

Nella mia memoria anche il silenzio spettrale delle rovine, interrotto dal calpestio dei nostri passi sui calcinacci, il rumore sordo dei generatori di corrente elettrica, il susseguirsi di movimenti tellurici e la paura di essere travolti, e poi un odore acre, pungente, un’aria malsana da cui ci proteggevamo con fazzoletti annodati sulla nuca.

Ma tra tutte le comunità colpite dal terremoto ce n’era una che, per dimensioni, richiedeva un maggior numero di uomini e mezzi, la cittadina di Lioni, sfigurata dal sisma; e fu proprio in questo paese, dove fummo trasferiti, che ho capito che cosa fosse veramente un terremoto.

Trovarsi davanti a un grande edificio di cemento armato accartocciato su sé stesso, è un’esperienza che ti segna per tutta la vita, e sono ancora vive in me le immagini dei palazzi crollati, trascinando nell’abisso intere famiglie e le loro vite fatte di “pezzi” di quotidianità: fotografie, indumenti, diari di scuola, libri, arredi, giocattoli, generi alimentari di ogni tipo, tutto mischiato e compresso in pochi metri di macerie, come un grande catafalco.

Ma c’è un episodio che voglio raccontare, rimasto scolpito nella mia mente in modo indelebile.

Un giorno, mentre stavo scavando assieme ad altri commilitoni alla base di una palazzina collassata, dall’ammasso di rovine estrassi integra una lampadina, quelle a incandescenza che usavamo una volta nelle nostre case, e grande fu la mia sorpresa, e dei presenti, nel rinvenire questo oggetto così fragile ma intatto, mentre tutto il resto era ridotto ai minimi termini.

Forse avrei dovuto conservare quella lampadina; ma mi sembrò irriguardoso appropriarmene, farne un macabro “souvenir”, e la rimisi al suo posto, nella sua “tomba”.

Non saprei dire quanti giorni rimasi ancora in quella parte d’Italia, ma da allora non sono più ritornato in quei luoghi né ho mai più rivisto, dopo il congedo militare, i miei compagni artiglieri, con i quali avevo condiviso ore drammatiche, disagi, pericoli, rinunce, ma consapevoli di aver svolto il nostro dovere di soldati e di cittadini.

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Luigi Lo Presti nasce a Francavilla di Sicilia il 10 settembre 1959; diplomato presso l’Istituto Tecnico Commerciale di Randazzo. La sua prima esperienza con il giornalismo risale agli anni Ottanta, quando all’età di 25 anni inizia a collaborare con il quotidiano “La Gazzetta del Sud” come corrispondente da Francavilla di Sicilia, dal 1984 al 1988, e con il settimanale “La Gazzetta Jonica”. Nel 1989 viene assunto nella Pubblica amministrazione e si trasferisce a Cuneo, in Piemonte, dove rimarrà per 20 anni. La lunga permanenza nella città subalpina non gli farà tuttavia dimenticare le proprie origini, e così nel 2008 rientra in Sicilia. Studia Scienze dell’Informazione, tecniche giornalistiche e social media presso l’Università di Messina. Attualmente, collabora anche con il Gazzettinoline di Giarre.

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